Il divieto di assunzione di alcol sul lavoro

Bisogna valutare e gestire attivamente il divieto di assunzione di alcol sul lavoro. A partire dai casi di ragionevole dubbio di ubriachezza.

La normativa ha introdotto a partire dal 2001 il divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche nelle attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi. Questo richiede non solo di valutare il rischio specifico nell’ambito del documento di valutazione dei rischi, ma anche di definire procedure che prevengano l’assunzione e la somministrazione e consentano una vigilanza continua sui lavoratori. Anche nei casi di ragionevole dubbio di ubriachezza.

Mansioni soggette a divieto di assunzione di alcol sul lavoro

Le attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi sono elencante nell’allegato 1 del Provvedimento del 16 marzo 2006 della Conferenza Stato- Regioni.

La normativa ha introdotto a partire dal 2001 il divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche nelle attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi.

Le riporto in forma sintetica:

  • impiego di gas tossici;
  • conduzione di generatori di vapore, attività di fochino, fabbricazione e uso di fuochi d’artificio, addetto e responsabile della produzione, confezionamento, detenzione, trasporto e vendita di esplosivi;
  • vendita di fitosanitari;
  • direzione tecnica, conduzione e manutenzione di impianti nucleari;
  • manutenzione  degli  ascensori;
  • dirigenti  e  preposti al controllo dei processi produttivi e alla  sorveglianza  dei sistemi di sicurezza negli impianti a rischio di  incidenti  rilevanti;
  • sovrintendenza ai lavori in ambienti confinato e/o sospetti di inquinamento;
  • mansioni sanitarie, sociali e socio-sanitarie svolte in strutture pubbliche e private;
  • attività di insegnamento nelle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado;
  • mansioni comportanti l’obbligo di porto d’armi;
  • addetti alla guida di veicoli stradali e non (metropolitane, funivie, tramvie, trasporto ferroviario, marittimo e aereo, macchine movimento terra e merci), conduttori di mezzi di sollevamento e responsabili dei fari;
  • lavoratori addetti ai comparti dell’edilizia e delle costruzioni e tutte le mansioni che prevedono attività in quota (oltre i 2 m di altezza);
  • capiforno e conduttori addetti ai forni di fusione;
  • operatori e addetti a sostanze potenzialmente esplosive e infiammabili, settore idrocarburi;
  • tutte le mansioni che si svolgono in cave e miniere.
Si deve escludere la possibilità di richiedere e acquistare alcolici e superalcolici nell'ambito delle mense aziendali o nelle strutture convenzionate.

Che cosa fare in pratica

Si parte dal DVR aziendale individuando le mansioni e le attività che ricadano nel divieto di assunzione e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, e a seguire:

  1. ci si interfaccia con il medico competente perché esegua gli accertamenti necessari nell’ambito della sorveglianza sanitaria;
  2. si informano i lavoratori del divieto di assunzione, precisando che questo significa non poter assumere bevande alcoliche e superalcoliche nemmeno prima dell’inizio del turno lavorativo o nelle pause di lavoro;
  3. si deve escludere la possibilità di richiedere e acquistare alcolici e superalcolici nell’ambito delle mense aziendali o nelle strutture convenzionate;
  4. si deve prevedere l’obbligo di segnalare le violazioni di cui si venisse a conoscenza (ex. si è testimoni dell’assunzione di alcolici in ambiente di lavoro o in pausa pranzo);
  5. si informano gli interessati che il mancato rispetto del divieto di assunzione è passibile di sanzioni disciplinari, amministrative e penali, a seconda del luogo e della modalità con la quale viene rilevata la violazione.

In caso di ragionevole dubbio di ubriachezza

Se il lavoratore si presenta al lavoro con alitosi alcolica, rallentamento nell'espressione verbale, andatura vacillante, scarsa o limitata coordinazione, oppure presenta comportamenti rischiosi, elevata e ingiustificata litigiosità o, ancora, esegue azioni contrastanti con le procedure di sicurezza aziendale, ci si trova ad affrontare un caso di ragionevole dubbio di ubriachezza.

Se il lavoratore si presenta al lavoro con alitosi alcolica, rallentamento nell’espressione verbale, andatura vacillante, scarsa o limitata coordinazione, oppure presenta comportamenti rischiosi, elevata e ingiustificata litigiosità o, ancora, esegue azioni contrastanti con le procedure di sicurezza aziendale, ci si trova ad affrontare un caso di ragionevole dubbio di ubriachezza.

La prima misura da mettere in atto è la richiesta al lavoratore di astenersi dall’esecuzione di ogni mansione ritenuta pericolosa per lui o per terzi, fino a che non risulti ristabilita una condizione di controllo o benessere. L’allontanamento dal luogo di lavoro, invece, può avvenire solo in caso di consenso del lavoratore, in caso contrario la sospensione dal lavoro può essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore; e l’allontanamento deve essere gestito al fine di garantire la sicurezza del lavoratore, eventualmente accompagnandolo a casa o affidandolo alle cure di terzi (parenti).

Se si hanno timori in relazione allo stato di salute o alla possibilità che il lavoratore commetta azioni dannose per sé o per terzi, è opportuno richiedere l'intervento dei soccorsi esterni e/o delle forze dell'ordine.

Se si hanno timori in relazione allo stato di salute o alla possibilità che il lavoratore commetta azioni dannose per sé o per terzi, è opportuno richiedere l’intervento dei soccorsi esterni e/o delle forze dell’ordine, tra cui poteri vi è anche la facoltà di accertare mediante alcoltest l’effettivo stato di ubriachezza del lavoratore.

Il ragionevole dubbio di ubriachezza non è di per sé sufficiente a giustificare un procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, azione che può essere avviata solo sulla base di un effettivo accertamento del mancato rispetto del divieto di assunzione di alcol sul lavoro, quindi solo a seguito di alcoltest con esito positivo.

Servizi fotografici aziendali e consenso privacy

I servizi fotografici aziendali determinano l'acquisizione di immagini fotografiche o riprese video che ritraggono dipendenti, clienti o visitatori, e, per tale ragione, richiedono di essere gestiti in termini di privacy.

I servizi fotografici aziendali determinano l’acquisizione di immagini fotografiche o riprese video che ritraggono dipendenti, clienti o visitatori e costituiscono dati personali, da gestire in termini di privacy.

In particolare, anche se i dati personali sono acquisiti per predisporre materiale promozionale, divulgativo e di comunicazione, quindi il trattamento avviene in modo lecito per il perseguimento del legittimo interesse del titolare, è necessario il consenso espresso da parte del soggetto interessato, perché così prevede la legge sul diritto d’autore. L’unica eccezione è il caso in cui “la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico“.

Privacy e servizi fotografici aziendali

Le immagini che ritraggono dipendenti, collaboratori, visitatori e clienti sono dati personali e, in quanto tali, devono essere gestiti secondo nel rispetto delle regole definite dal Regolamento europeo 2016/679.

Fotografie, video e materiali multimediali possono essere realizzati da un’azienda per comunicare la propria attività e professionalità verso l’esterno, caricando il materiale sul sito aziendale e le piattaforme social (ex. Facebook, Instagram, LinkedIn, YouTube), inviandolo alla stampa o inserendolo nel proprio materiale pubblicitario (ex. depliant e brochure).

Le immagini che ritraggono dipendenti, collaboratori, visitatori e clienti sono dati personali e, in quanto tali, devono essere gestiti nel rispetto delle regole definite dal Regolamento europeo 2016/679.

La liceità del trattamento e il diritto d’autore

Nel caso delle immagini che ritraggono persone, i requisiti del GDPR si combinano con quelli della sezione II (Diritti relativi al ritratto) della legge n.633/41 sul diritto d'autore.

Perché un trattamento di dati personali possa essere effettuato, è necessario che sia determinato da una delle ragioni previste dalla normativa (base giuridica del trattamento).

Nel caso specifico, la motivazione che sta alla base del trattamento dei dati è la promozione dell’attività dell’impresa, che equivale al perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento dei dati e che è una base giuridica ammessa dal GDPR. Allo stesso tempo, però, i requisiti del Regolamento si combinano con quelli della sezione II (Diritti relativi al ritratto) della legge n.633/41, conosciuta come legge sul diritto d’autore.

Art. 96

Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente.

[…]

Art. 97

Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o colturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata.

Non è previsto l'obbligo di consenso espresso da parte dell'interessato in caso di riproduzione collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Come si deve procedere?

L’informativa sul trattamento dei dati personali non deve mai mancare: il titolare del trattamento deve informare l’interessato in merito ai dettagli relativi all’utilizzo dei suoi dati e ai suoi diritti. Ricordo che l’informativa può includere una sezione per esprimere il consenso al trattamento ma non nasce con questa finalità.

Quindi, oltre a predisporre l’informativa relativa al trattamento delle immagini ed è necessario prevedere un modulo di consenso, eventualmente come parte terminale dell’informativa.

In relazione ai casi in cui non è previsto l’obbligo di consenso (riproduzione collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico), l’interessato deve comunque essere informato del trattamento quindi è opportuno inserire nell’informativa sul trattamento delle immagini i dettagli relativi.

oltre a predisporre l'informativa relativa al trattamento delle immagini ed è necessario prevedere un modulo di consenso, eventualmente come parte terminale dell'informativa.

Ti lascio un esempio.

“Nel caso di eventi pubblici quali, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, conferenze stampa, eventi pubblici o manifestazioni pubbliche alle quali l’impresa dovesse prendere parte, non è necessario il consenso espresso da parte del soggetto interessato che si presenta presso i luoghi e gli spazi (ex. sale convegni, ambienti sia in interno che in esterno presso i quali si svolgono eventi – sale comunali, spazi cittadini, ecc.) nei quali è stato attivato un servizio di riprese fotografiche o video.

L’attivazione di tali attività video/fotografiche sarà chiaramente identificata con apposita segnaletica.

Al di fuori della fattispecie suddetta, gli interessati potranno esprimere il proprio consenso al trattamento dei dati mediante compilazione della sezione conclusiva della presente informativa.”

Qual è la formazione per i lavori in quota?

I lavori in quota espongo al rischio di caduta dall'alto, che deve essere oggetto di formazione specifica, ma non esistono obblighi in merito a un corso " lavori in quota" quanto a quelli relativi ai dispositivi o alle attrezzature che si utilizzano ai fini della gestione del rischio di caduta.

Partendo dal presupposto che i lavori in quota espongo al rischio di caduta dall’alto, che deve essere oggetto di formazione specifica, è vero però che non esistono obblighi in merito a un corso “ lavori in quota” quanto, piuttosto, a quelli relativi ai dispositivi o alle attrezzature che si utilizzano ai fini della gestione del rischio di caduta.

Mi spiego meglio.

Premessa

Si parla di lavori in quota (art. 107 D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii), in ambito di cantiere e in ambito produttivo, quando il lavoratore è esposto a una rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto a un piano stabile: non importa a quale quota si trovi a operare il lavoratore, importa “il dislivello” tra il piano di lavoro e il piano stabile.

Si parla di lavori in quota (art. 107 D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii), in ambito di cantiere e in ambito produttivo,  quando il lavoratore è esposto a una rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto a un piano stabile.

Gli strumenti per gestire il rischio di caduta dall’alto

La normativa prevede che il rischio sia gestito secondo una scala di priorità:

  1. scegliendo le attrezzature più adeguate rispetto all’ambiente di lavoro e all’attività da eseguire;
  2. privilegiando le misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
  3. scegliendo la modalità di accesso in quota più sicura in funzione di frequenza di circolazione, dislivello, durata dell’impiego e possibilità di evacuazione in caso di pericolo imminente;
  4. evitando lo svolgimento delle attività se le condizioni meteorologiche sono avverse;
  5. vietando l’assunzione e la somministrare di bevande alcoliche e superalcoliche agli operatori.
Non esiste un articolo di legge che parli del corso per lavori in quota, al contrario sono previsti corsi relativi all'utilizzo delle attrezzature, dei dispositivi e delle procedure di lavoro necessarie alla gestione del rischio di caduta dall'alto che è presente in questa tipologia di lavori.

Obblighi di formazione per i lavori in quota

Non esiste un articolo di legge che parli del corso per lavori in quota, al contrario sono previsti corsi relativi all’utilizzo delle attrezzature, dei dispositivi e delle procedure di lavoro necessarie alla gestione del rischio di caduta dall’alto che è presente in questa tipologia di lavori, e cioè:

  1. il posizionamento mediante funi (art. 116 e allegato XXI del D. L.vo 18/08);
  2. l’utilizzo dei DPI anticaduta (artt. 115 e 77 del D. L.vo 18/08);
  3. il montaggio, l’uso, la trasformazione e lo smontaggio dei ponteggi (art. 136 e allegato XXI del D. L.vo 18/08) con la specifica presenza di un preposto con funzione di sorveglianza (artt. 136 e 37 del D. L.vo 18/08).

Resta fermo il fatto che i lavori in quota espongono al rischio di caduta dall’alto che è un argomento previsto nella formazione specifica, il modulo di 4, 8 o 12 ore che insieme alla formazione generale completa la formazione “base” dei lavoratori.

In pratica, quale corso serve per i lavori in quota?

L’importante non è il nome ma il contenuto e per scegliere il corso corretto si seguono due strade:

  1. il lavoratore ha il modulo di formazione specifica che comprende il rischio di caduta dall’alto? Allora per lavorare in quota dovrà frequentare i corsi aggiuntivi relativi alle attrezzature e ai DPI che dovrà utilizzare, oltre a quello di preposto se svolge questa funzione;
  2. il lavoratore non ha una formazione specifica sul rischio di caduta dall’alto? Allora deve partecipare a un corso aggiuntivo sul rischio specifico, che può valere come aggiornamento della formazione specifica, può comprendere la formazione sui DPI e può chiamarsi “corso lavori in quota”. Ma questo non lo esonera dal dover frequentare i corsi per il posizionamento mediate funi, i ponteggi e la funzione di preposto, a seconda del ruolo che svolge e degli strumenti e alle procedure di lavoro a cui ricorre.

Abbastanza chiaro? In caso di dubbi, scrivimi!

La gestione dei documenti e la condivisione

Che cosa c'entrano la gestione dei documenti e la loro condivisione con formazione, sicurezza e privacy?

Che cosa c’entra la gestione dei documenti con formazione, sicurezza e privacy? E la loro condivisione poi?

C’entrano, c’entrano. Per almeno tre buoni motivi:

  1. senza i documenti non si può dimostrare nulla;
  2. senza i documenti non si conoscono le scadenze da tenere sotto controllo per rimanere in regola;
  3. non passa giorno senza che qualcuno chieda un documento che riguarda la sicurezza, la formazione del personale o la privacy.

L’ABC della gestione dei documenti

Gestire i documenti significa sapere dove sono, tenerne sotto controllo la scadenza, avere a portata di mano quelli aggiornati.

Gestire i documenti significa sapere dove sono, se riportano una scadenza da tenere sotto controllo o se hanno una scadenza anche se non ce l’hanno scritta sopra, avere a portata di mano quelli aggiornati ed evitare di inviare o consegnare a chi ce li chiede la versione sbagliata, quella vecchia e superata, che, però, deve essere conservata per un certo tempo. E dico “un certo tempo” perché i vincoli di conservazione dei documenti posso variare, ma i 10 anni sono un po’ lo spartiacque definitivo.

Sembra facile, soprattutto per chi ha avuto un’esperienza, anche breve, con i sistemi di gestione. E invece.

Esigenze più immediate

Ogni azienda ha esigenze specifiche in funzione dell’attività, della dimensione, della struttura e dell’organizzazione, ma tutte ne hanno almeno due in comune:

  1. tenere sotto controllo le scadenze;
  2. condividere gli stessi documenti con più persone, anche esterne all’impresa.

Soluzioni

Partiamo dalla scadenze.

Ogni azienda ha esigenze specifiche in funzione dell'attività, della dimensione, della struttura e dell'organizzazione, ma tutte hanno almeno due esigenze comuni: tenere sotto controllo le scadenze e condividere gli stessi documenti con più persone, anche esterne all'impresa.

Scrivere nel nome del file la data di scadenza funziona solo per poche scadenze e per file che vengono visionati frequentemente. In breve: non è una strategia sostenibile.

Raccogliere le scadenze in uno o più file excel è il punto di partenza: un unico file da aprire spesso (anche se non volentieri), eventualmente con più fogli, uno per argomento (1. formazione, 2. visite mediche, 3. verifica delle attrezzature, 4. documento di valutazione dei rischi, 5. manutenzioni impianti, …). E magari si impara anche a impostare la regola per fare in modo che le celle con scadenze in scadenza (ops!) si colorino prima che sia troppo tardi.

Poi sì, ci sono i gestionali aziendali oppure sistemi di gestione dei documenti online. Se ne possono recuperare elenchi infiniti, da marchi notissimi ad altri meno noti, ma qui sono necessari investimenti e uno sguardo ampio alle esigenze dell’impresa, non solo a quelle che riguardano sicurezza sul lavoro o privacy.

Arriviamo alla condivisione dei documenti.

Cartelle condivise di Google Drive e di Dropbox sono la soluzione gratuita alla portata di tutti per avere accesso ai documenti anche fuori dalla sede aziendale.

Qui viene in aiuto la tecnologia.

Cartelle condivise di Google Drive e di Dropbox sono la soluzione gratuita alla portata di tutti (salvo esigenze di spazio per moli di file importanti) e con almeno due vantaggi:

  1. l’assoluta personalizzazione dell’archivio, che significa poter creare le cartelle che si vogliono e come si vogliono;
  2. la possibilità di definire il tipo di condivisione, quindi se chi accede alla cartella e ai documenti ha solo la possibilità di visualizzare o anche di modificare i file condivisi.

Il problema è che sta all’utente decidere che cosa gli serve e che cosa no e ricordarsi di mantenere aggiornati i documenti.

Anche in questo caso non mancano gestionali e software, anche con app per il telefono, che uniscono condivisione dei documenti e gestione delle scadenze, ma il servizio è a pagamento, a meno che non si tratti di strumenti promossi a livello territoriale, come nel caso del portale Check della Cassa edile di Brescia.

Problemi ne abbiamo?

Se si decide di entrare nel mondo dei gestionali  e dei software di gestione dei documenti, è necessario mettere in conto un investimento iniziale di tempo per caricare tutti i documenti e i dati di interesse.

Sono onestissima e dico che possono essere due.

Se si decide di entrare nel mondo dei gestionali e dei software di gestione dei documenti, è necessario mettere in conto un investimento iniziale di tempo per caricare tutti i documenti e i dati di interesse e impostare le scadenze. Il risparmio di tempo arriva dopo però!

Per ultimo l’aspetto più antipatico, per concludere col botto. Nell’affrontare l’esigenza di gestione di documenti e scadenze, ogni impresa si muove facendo valutazioni di convenienza interna, con il risultato che ciascuno utilizza metodi e strumenti diversi che raramente comunicano tra loro. Questo significa che può capitare di dover ripetere una parte del lavoro fatto al proprio interno (caricamento dati e documenti e impostazione scadenze) per rendere disponibili e verificabili i propri documenti a soggetti terzi che hanno stabilito un proprio metodo di raccolta e verifica.

Medico competente: responsabile o titolare del trattamento?

Lo scorso 23 giugno il Garante per la protezione dei dati personali ha presentato la Relazione annuale sulle attività svolte nel 2019. Si parte dai numeri e si scende poi nei dettagli con paragrafi descrittivi di approfondimento. Il n. 13.14, intitolato “I trattamenti di dati da parte del medico competente” affronta in modo esplicito e definitivo la questione della posizione del medico competente nell’ambito del sistema di gestione della privacy aziendale. Tra chi considerava il medico competente un responsabile esterno al trattamento e chi lo riteneva un titolare del trattamento sono i secondi a ricevere la conferma espressa da parte del Garante.

Il medico competente come autonomo titolare

Il Garante lo dice chiaramente:

“il Garante ha tradizionalmente considerato il medico competente un autonomo titolare e, nonostante gli accertamenti volti a verificare l’idoneità alla mansione specifica del dipendente siano obbligatori per legge e svolti a spese e a cura del datore di lavoro (artt. 39, comma 5 e 41, comma 4, d.lgs. n. 81/2008), essi devono essere effettuati esclusivamente tramite il professionista. Egli è, infatti, l’unico soggetto legittimato a trattare i dati sanitari dei lavoratori per le finalità indicate dalla disciplina di settore…”

La questione non è legata alla presenza di un incarico conferito dal datore di lavoro al professionista, ma al fatto che il professionista è l’unico legittimato ex lege a trattare in piena autonomia e competenza tecnica i dati personali di natura sanitaria.

La questione, in sostanza, non è legata alla presenza di un incarico conferito dal datore di lavoro al professionista, ma al fatto che “nello svolgimento dei compiti che la legge gli attribuisce in via esclusiva (attività di sorveglianza sanitaria e tenuta delle cartelle sanitarie e di rischio dei singoli lavoratori), il professionista è l’unico legittimato ex lege a trattare in piena autonomia e competenza tecnica i dati personali di natura sanitaria indispensabili
per tale finalità, non potendo essere in alcun modo trattate dal datore di lavoro informazioni relative, ad esempio, alla diagnosi o all’anamnesi familiare del lavoratore, se non con riferimento al solo giudizio di idoneità alla mansione specifica ed alle eventuali prescrizioni che il professionista fissa come condizioni di lavoro
“.

E non è la tipologia di rapporto tra professionista sanitario e datore di lavoro a influire sulla posizione del medico competente come titolare del trattamento:

“Anche sotto il profilo sanzionatorio, il quadro normativo nazionale distingue chiaramente le responsabilità che ricadono sul datore di lavoro da quelle che invece sono direttamente imputabili al medico competente, sia quando opera in qualità di libero professionista o per conto di strutture convenzionate, sia quando opera in qualità di dipendente del datore di lavoro.”

Non solo non è necessario nominare il medico competente quale responsabile esterno al trattamento dei dati personali, ma questa nomina non risulta corretta dal punto di vista normativo.

Quindi? Quindi non solo non è necessario nominare il medico competente quale responsabile esterno al trattamento dei dati personali, ma questa nomina non risulta corretta dal punto di vista normativo ed è opportuno eliminarla, aggiornando anche la documentazione che descrive la modalità di gestione dalla privacy in azienda che dovesse contenere riferimenti al ruolo del medico competente e lo citasse come responsabile esterno anziché come titolare (ex. DPIA o registro dei trattamenti).

La scelta del formatore sicurezza

In molti casi la scelta del formatore sicurezza è tutta responsabilità delle società e degli enti di formazione ai quali i datori di lavoro si rivolgono per organizzare i corsi per i propri lavoratori. Non mancano però i casi in cui i datori di lavoro fanno riferimento in modo diretto ai propri consulenti di fiducia per organizzare la formazione in azienda, affidando quindi l’attività direttamente ai professionisti. In entrambi i casi la verifica del possesso di requisiti tecnici (qualifica di formatore) è il primo passo per scegliere il docente, ma il consiglio è di fare valutazioni anche di carattere relazionale o di capacità didattica.

La qualifica di formatore sicurezza

Dall’entrata in vigore del D.M. del 6 marzo 2013 (18.03.2014) sono passati oramai sei anni e l’idea che per svolgere buona parte della formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro sia necessario possedere requisiti di istruzione o esperienza e di formazione specifici si è diffusa.

La verifica del possesso di requisiti tecnici (qualifica di formatore sicurezza) è il primo passo per scegliere il docente, ma il consiglio è di fare valutazioni anche di carattere relazionale o di capacità didattica.

La domanda a volte è generica, più un «Ma tu puoi farli i corsi sicurezza?» che un «Sei qualificato come formatore sicurezza? Per quali corsi?», ma comunque efficace: rivela la consapevolezza che il formatore debba essere in grado di dimostrare di essere in possesso di titoli di studio, esperienza e formazione specifica, in costante aggiornamento.

L’invito ai datori di lavoro è quello a spingersi fino alla richiesta ai professionisti della documentazione che dimostri il possesso della qualifica, mentre ai formatori l’invito è a essere i promotori della verifica da parte del cliente.

La qualità del formatore

Chiunque abbia partecipato a un’attività formativa sa bene che il suo successo non sta tanto nel contenuto quanto nella capacità del docente di presentarlo.

Chiunque abbia partecipato a un'attività formativa sa bene che il suo successo non sta tanto nel contenuto quanto nella capacità del docente di presentarlo.

Il Decreto del 6 marzo 2013 introduce il tema prevedendo sempre un requisito di “capacità didattica” dei formatori sicurezza, che può essere soddisfatto attraverso la frequenza di un percorso formativo in didattica (corso 24 ore o abilitazione all’insegnamento o percorso universitario in comunicazione) o grazie all’esperienza maturata come docente o in affiancamento.

L’idea di fondo è che il docente, oltre a conoscere la materia trattata, debba essere anche in grado di gestire le persone in aula e il tempo, di mantenere alta l’attenzione, di riformulare i propri contenuti in funzione del pubblico e delle domande che gli vengono rivolte, per avere garanzia che i contenuti siano compresi e appresi dai discenti.

Gli enti di formazione provvedono a valutare le capacità didattiche del docente in modo diretto (prendendo parte ai corsi tenuti dal formatore) o indiretto (attraverso i questionari di soddisfazione), mentre in caso di affidamento diretto dell’incarico di formatore sicurezza da parte dell’azienda questa valutazione tende a essere dimenticata.

L'idea di fondo è che il docente, oltre a conoscere la materia trattata, debba essere anche in grado di gestire le persone in aula e il tempo, di mantenere alta l'attenzione, di riformulare i propri contenuti in funzione del pubblico e delle domande che gli vengono rivolte, per avere garanzia che i contenuti siano compresi e appresi dai discenti.

Il datore di lavoro può utilizzare gli stessi metodi adottati dagli enti di formazione con almeno tre vantaggi:

  1. la presenza del datore di lavoro o di un suo rappresentante ai percorsi di formazione fa sì che il personale percepisca la rilevanza dell’attività e sia più partecipe;
  2. il datore di lavoro o un suo rappresentante possono evidenziare incongruenze tra le nozioni trasmesse e la pratica aziendale e favorire/imporre la correzione di procedure e comportamenti, con una ricaduta immediata della formazione nella pratica quotidiana;
  3. l’azienda procede alla qualifica del fornitore, valutando la sua adeguatezza o la necessità della sua sostituzione (ovviando così alla noia o al disinteresse del personale).

Esiste una forma di valutazione preventiva della capacità didattica? Direi di sì, anche se non è sempre efficace: il colloquio preliminare all’erogazione della formazione, per mettere a punto i contenuti in funzione dell’attività aziendale e dei lavoratori coinvolti in termini di ruolo e mansioni, la verifica della disponibilità delle attrezzature e degli spazi, rivela molto dell’attenzione del docente per gli aspetti che vanno al di là delle nozioni tecniche.

A che cosa servono i fondi interprofessionali?

I fondi interprofessionali servono per finanziare la formazione obbligatoria e non del personale con fondi già versati dall'impresa o con fondi aggiuntivi.

Se la formazione è un investimento, allora perché non finanziarlo a tasso zero? Ecco a che cosa servono i fondi interprofessionali: a finanziare la formazione del personale aziendale, obbligatoria e non, con fondi già versati dall’impresa e, a volte, con fondi aggiuntivi messi a disposizione dai fondi stessi. Ma facciamo un passo alla volta.

Che cosa sono i fondi interprofessionali

Con questa espressione si fa riferimento ai Fondi paritetici interprofessionali nazionali
per la formazione continua
, organizzazioni autorizzate dal Ministero del Lavoro la cui finalità è quella di promuovere la formazione dei lavoratori attraverso uno specifico meccanismo di finanziamento dei corsi.

Come avviene il finanziamento della formazione

Le aziende possono decidere di aderire a uno dei fondi attivi attraverso il flusso Uniemes, vedendo quindi accantonati i fondi da lei versati in un conto aziendale.

Tra i contributi versati a INPS dai datori di lavoro è compreso il contributo integrativo per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, pari allo 0,30% dei contributi versati. Questo elemento della contribuzione può essere restituito, dedotti i costi amministrativi, ai fondi interprofessionali.

Le aziende possono decidere di aderire a uno dei fondi attivi attraverso il flusso Uniemes, vedendo quindi accantonati i fondi da loro versati in un conto aziendale, a disposizione per sostenere percorsi formativi aziendali.

Per le realtà di piccole dimensioni per le quali i fondi accantonanti sono esigui, vi è la possibilità di sfruttare i cosiddetti “Avvisi” emanati dal fondo a cui ciascuna impresa ha deciso di aderire, che possono coinvolgere più imprese appartenenti a un dato settore o una data area geografica (conti di sistema).

Quale formazione si può finanziare?

Dipende dal fondo al quale si aderisce e dalla modalità di finanziamento del corso (conto aziendale o di sistema). In termini generali si può finanziare la formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza sul lavoro e ogni altro percorso di formazione finalizzato a favorire lo sviluppo di competenze e professionalità.

In termini generali si può finanziare la formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza sul lavoro e ogni altro percorso di formazione finalizzato a favorire lo sviluppo di competenze e professionalità.

Attenzione

Quattro gli aspetti ai quali prestare attenzione:

  1. è possibile passare da un fondo all’altro, disdicendo l’adesione a un fondo e richiedendo l’adesione a un altro fondo, ma è sempre opportuno verificare che i fondi interessati nel passaggio consentano di trasferire i fondi accantonati, altrimenti può essere il caso di esaurire i fondi maturati prima di procedere alla variazione;
  2. ogni fondo presenta regole specifiche, quindi prima di fare cambiamenti è buona cosa valutare l’adeguatezza del fondo rispetto alle esigenze e alle caratteristiche dell’azienda;
  3. i tempi di approvazione dei piani formativi non sono sempre rapidi, per cui la programmazione della formazione unita al monitoraggio di conto aziendale ed eventuali avvisi pubblicati da fondo non vanno trascurati;
  4. la presentazione dei piani e la relativa rendicontazione non sono attività banali e da prendere alla leggera, soprattutto nei casi in cui l’azienda deve prima pagare le attività formative e ottiene poi la restituzione delle cifre dal fondo interessato.

AAA consulente cercasi

Il mondo dei fondi interprofessionali ha la sua complessità e quindi, sì, ci sono consulenti che aiutano a orientarsi nella scelta del fondo più adeguato e nella gestione dei piani formativi.

Il mondo dei fondi interprofessionali ha la sua complessità e quindi, sì, ci sono consulenti che aiutano a orientarsi nella scelta del fondo più adeguato e nella gestione dei piani formativi. Stai cercando proprio uno di loro? Scrivimi o chiamami e sarà un piacere mettervi in contatto.

La denuncia di malattia professionale

La denuncia di malattia professionale è un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell'emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale.

Si tratta di un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell’emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale da parte del dipartimento di medicina del lavoro della struttura sanitaria territoriale, o da parte di altro medico che abbia aderito a specifico accordo con INAIL e le rappresentanze sindacali.

La denuncia di malattia professionale è nella pratica un atto amministrativo di trasferimento di informazioni inerenti la vita lavorativa di uno specifico lavoratore e non equivale al riconoscimento della malattia professionale, ma può porre le basi per il riconoscimento e, quindi, deve essere effettuata con cura.

Che cos’è la malattia professionale?

Le patologie che siano direttamente ricollegabili all'esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La condizione di salute di un lavoratore può risentire dell’attività lavorativa. Questo significa che, con il passare del tempo, l’esposizione agli agenti di rischio (ex. microclima, vibrazioni, rumore, movimenti ripetitivi degli arti superiore, movimentazione manuale dei carichi, sostanze cancerogene) può comportare delle conseguenze a livello fisico per il lavoratore, l’insorgere di patologie. Le patologie che siano direttamente ricollegabili all’esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La correlazione tra patologia e attività lavorativa non è sempre certa, cioè resta in carico a INAIL verificare che la patologia diagnosticata sia riconducibile in modo univoco all’ambito lavorativo. La denuncia di malattia professionale è il momento in cui INAIL, attraverso un medico del lavoro incaricato, avvia la verifica per stabilire se esista o meno un legame di causa-effetto tra attività lavorativa e patologia.

Chi segnala il sospetto di malattia professionale?

In primo luogo può essere il medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all'attività lavorativa.

In primo luogo può essere il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all’attività lavorativa. In quel caso allerterà il datore di lavoro del fatto che invierà il lavoratore a visita presso il dipartimento di medica del lavoro dell’azienda sanitaria territorialmente competente. Il dipartimento valuterà lo stato di salute e, nel caso confermasse il sospetto del medico competente, emetterà un certificato di sospetta malattia professionale.

In secondo luogo può essere il medico curante ad avanzare il sospetto e, in questo caso, per quanto il percorso per il lavoratore sia il medesimo del caso precedente, il datore di lavoro verrà a conoscenza della situazione solo nel momento in cui dovesse ricevere il certificato medico.

Il certificato in questione riporta la dicitura “certificato di malattia professionale” ma, di fatto, la malattia deve prima ricevere il riconoscimento esplicito di “professionale” da parte di INAIL per considerarsi effettiva. Il certificato può essere trasmesso al datore di lavoro dal lavoratore, dal dipartimento di medicina del lavoro o da INAIL: quale che sia il canale, il datore di lavoro deve procedere alla denuncia di malattia professionale entro 5 giorni dal ricevimento del certificato.

La denuncia

L'invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l'area riservata del sito INAIL.

L’invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l’area riservata del sito INAIL. Per evitare difficoltà è utile scaricare prima il manuale specifico e seguirlo passo passo, dopo una prima lettura generale per riuscire a orientarsi nel documento. In sintesi, il datore di lavoro deve riepilogare le attività svolte dal lavoratore presso la sua impresa, aggiungendo dati anagrafici e amministrativi.

INAIL, contestualmente alla richiesta di denuncia o a seguito della presentazione da parte del datore di lavoro, trasmette uno o più questionari differenziati in funzione dei fattori di rischio che sono considerati causa della patologia diagnosticata. Il datore di lavoro deve compilarli in ogni parte pertinente e allegare la documentazione richiesta, in genere relativa alla valutazione dei rischi o a valutazioni di dettaglio.

Il riconoscimento

In caso di riconoscimento della malattia professionale, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL.

Sulla base dei dati forniti dal datore di lavoro attraverso i questionari, un medico del lavoro incarico da INAIL valuta l’effettiva correlazione della patologia all’attività lavorativa. L’esito della valutazione può essere quindi anche un mancato riconoscimento della malattia professionale.

In caso di riconoscimento, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL, mentre sul fronte del datore di lavoro si osserva per la sua impresa una variazione del tasso medio di tariffa INAIL, quindi un aumento del premio assicurativo.

Il DPO, Data Protection Officer

La sigla DPO sta per Data Protection Officer ed equivale alla versione italiana Responsabile della Protezione dei Dati (RPD).

La sigla DPO sta per Data Protection Officer ed equivale alla versione italiana Responsabile della Protezione dei Dati (RPD).

Questa figura è obbligatoria solo in alcuni casi specifici:

  • quando il trattamento dei dati è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico (a eccezione delle autorità giurisdizionali che effettuano attività giurisdizionali);
  • quando le attività principali del titolare o del responsabile del trattamento consistono in trattamenti che per la loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala;
  • quando le attività principali del titolare o del responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali o di dati relativi a condanne penali, reati o a connesse misure di sicurezza.

Nei casi in cui la normativa (GDPR) non impone la designazione, è comunque possibile la nomina di un RPD per scelta volontaria e, nel caso di un gruppo di imprese o soggetti pubblici, è possibile nominare un unico DPO.

Chi può svolgere la funzione di DPO?

Il DPO può essere interno o esterno all’organizzazione, e svolgere altre funzioni, ma, al di là della scelta strategica, l'importante è che possieda competenze giuridiche, informatiche, di gestione del rischio e di analisi dei processi.

Il DPO può essere interno o esterno all’organizzazione, e svolgere altre funzioni, ma, al di là della scelta strategica, l’importante è che:

  1. possieda competenze giuridiche, informatiche, di gestione del rischio e di analisi dei processi;
  2. svolga il suo ruolo con indipendenza e senza conflitti di interesse, e questo significa che non può essere lui a decidere finalità e strumenti di trattamento dei dati personali e che il titolare o il responsabile del trattamento devono fornirgli le risorse necessarie per assolvere ai suoi compiti e accedere ai dati personali e ai trattamenti.

Non sono richieste attestazioni formali o l’iscrizione ad appositi albi professionali, anche se la partecipazione a master e corsi professionali sulle tematiche specifiche è un utile strumento per valutare il possesso di un livello adeguato di conoscenze.

La nomina di DPO deve essere formalizzata e il nominativo dell’incaricato, nonché la sua eventuale variazione e revoca, deve essere comunicata al Garante per la protezione dei dati personali attraverso specifica procedura online.

Quali sono i compiti del RDP?

Il responsabile della protezione dei dati è un facilitatore dell’osservanza delle disposizioni del GDRP.

Il responsabile della protezione dei dati è un facilitatore dell’osservanza delle disposizioni del GDRP. I suoi compiti comprendono:

  1. informare e svolgere attività di consulenza verso il titolare o il responsabile del trattamento e gli incaricati del trattamento degli obblighi derivanti dal GDPR e dalle altre norme relative alla protezione dei dati;
  2. sorvegliare sulla corretta gestione del trattamento in osservanza al GDPR e alle altre norme relative alla protezione dei dati, comprese l’attribuzione delle responsabilità, la sensibilizzazione e la formazione del personale che partecipa ai trattamenti e alle connesse attività di controllo;
  3. fornire un parere, se richiesto, in merito alla DPIA e sorvegliare sul suo svolgimento;
  4. cooperare con l’autorità di controllo rispetto alla quale funge da punto di contatto per questioni connesse al trattamento.

Vuoi approfondire la questione? Puoi scaricare le Linee guida sui responsabili della protezione dei dati (RPD) – WP243 adottate dal Gruppo di lavoro Art. 29.

Non sai più che DPO pigliare? Contattami!

APVR: formazione e addestramento

Con la sigla APVR si fa riferimento agli apparecchi di protezione delle vie respiratorie.

Con la sigla APVR si fa riferimento agli apparecchi di protezione delle vie respiratorie. Il personale che li ha in dotazione deve essere formato e addestrato. Ma quanto dura la formazione e ogni quanto deve essere ripetuta?

APVR: apparecchi di protezione delle vie respiratorie

Per APVR si intendono (D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii., allegato VII):

  • apparecchi antipolvere, antigas e contro le polveri radioattive;
  • apparecchi isolanti a presa d’aria;
  • apparecchi respiratori con maschera per saldatura amovibile;
  • apparecchi e attrezzature per sommozzatori;
  • scafandri per sommozzatori.
Un primo elenco degli APVR è contenuto nell'allegato VII del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.

Formazione e addestramento per gli APVR

Il datore di lavoro deve garantire (art. 74, comma 4 del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.) che i lavoratori ricevano informazioni adeguate in merito all’utilizzo dei DPI in dotazione e anche formazione e addestramento.

L’addestramento, in particolare, è indispensabile per i DPI di III categoria e i dispositivi di protezione dell’udito (art. 74, comma 5, D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.), e gli APVR rientrano nella prima casistica.

A questo si aggiunge il fatto che l’art. 79 comma 2-bis del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii. richiama la validità del DM 126/01 e che questo decreto ministeriale contiene nell’allegato 2 (punto 7.4 e seguenti) i riferimenti specifici alla formazione e all’addestramento per il personale addetto/incaricato all’uso degli APVR, escludendo gli apparecchi di immersione e quelli per alte quote e pressioni diverse da quelle atmosferiche.

L'addestramento è indispensabile per i DPI di III categoria e i dispositivi di protezione dell'udito, e gli APVR rientrano nella prima casistica.

Il testo è ripreso dalla norma UNI vigente al momento della stesura del decreto (UNI 10720:1998), poi revocata con la pubblicazione della UNI 529:2006, cui è seguita la pubblicazione della UNI 11719:2018. La sostanza però, per quanto riguarda formazione e l’addestramento non è mutata:

  1. è necessario fornire un’informazione e una formazione, sia teorica che pratica (addestramento), prima del primo utilizzo;
  2. è necessario ripetere l’informazione e la formazione a intervalli regolari, da definire in funzione dell’utilizzo effettivo, partendo dal presupposto che maggiore è l’utilizzo dei dispositivi minore può essere la frequenza (ex. nel caso degli autorespiratori, se l’uso è frequente non è necessario ripetere le prove pratiche, mentre, se l’uso è sporadico, le prove pratiche dovrebbero essere semestrali);
  3. la formazione e il suo aggiornamento devono essere affidati a personale competente;
  4. la durata della formazione dipende dal tipo, dalla frequenza e dallo scopo dell’utilizzo (ex. per gli autorespiratori non dovrebbe essere inferiore a 8 ore e può superare le 20 ore).
Prima del primo utilizzo degli APVR è necessario fornire un'informazione e una formazione, sia teorica che pratica (addestramento).

Attenzione agli ambienti confinati

La gestione delle attività in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento deve rispettare le disposizioni del DPR 177/11, che richiama gli articoli 66 e 121 del D. L.vo 81/08, i quali, a loro volta, richiamano l’utilizzo di DPI. In sostanza, quanto riepilogato sinora sull’utilizzo degli APVR resta valido anche in questo ambito per cui, in assenza di indicazioni di dettaglio su contenuti, durata e frequenza di aggiornamento della formazione necessaria per gli operatori in ambienti confinati, il datore di lavoro deve valutare l’idoneità della proposta formativa anche alla luce delle norme in materia di APVR, verificando  se il corso comprenda la formazione sui DPI di interesse e quali siano le relative caratteristiche.